Alberto Manzi, maestro d’Italia

Negli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, gli analfabeti in Italia corrispondevano circa al 10% della popolazione. Il Paese, in ripresa dalla guerra, viveva l’inizio del boom economico. Crescevano le industrie e con esse il tasso di occupazione e produttività. Su strada correvano le prime automobili, fiat 600 e 500, la RAI si ascoltava in radio, i più fortunati cominciavano a vederla in televisione. È in questo periodo storico che si colloca la figura di Alberto Manzi, romano, plurilaureato, maestro di scuola elementare dal 1968 al 1988. Gli anni precedenti lo videro partecipe, sempre come didatta, in due esperienze significative: nel ’46 presso il carcere minorile Gabelli di Roma e dal ’60 al ’68 in RAI nel programma “Non è mai troppo tardi”. Manzi, in un’intervista, riconobbe il valore dell’esperienza in carcere, in cui si trovò poco più di ventenne, a dover interfacciarsi con ragazzi detenuti, dai nove ai diciassette anni:

«Non c’erano aule, banchi e sedie ma solo un’enorme sala dove vivevano questi novantaquattro ragazzi, ognuno nel proprio cubicolo, ricavato nella parete, con un cancelletto a sbarre da cui potevano accedere alla sala. Non potevano usare matite né penne, non c’erano i libri, non c’era niente. […] Di tutti quei ragazzi, quando sono usciti dal carcere, solo due su novantaquattro sono rientrati in prigione.»

Nonostante i mezzi miseri che il maestro aveva a disposizione – usavano mozziconi di matite e come fogli di carta le buste del pane aperte – riuscì, attraverso storie, attività di gruppo, giornalini, recite, grazie soprattutto allo strumento della discussione, ad incuriosire, intrattenere ed educare la maggior parte di quei ragazzi. Considerando la mentalità, gli strumenti disponibili e la cultura sociale di quel periodo, era una rivoluzione.

Per aiutare a ridurre il tasso di analfabetismo, l’allora Ministro della Pubblica Istruzione Nazareno Padellaro ebbe l’idea di impiegare come mezzo la televisione. Fu proprio per questo che le oltre quattrocentottantaquattro puntate, della durata ciascuna di trenta minuti, ebbero enorme successo. Inoltre, grazie ai libri per bambini “Gregh” e “Orzowei”, pubblicati a cavallo degli anni Cinquanta, Manzi riuscì a far avvicinare migliaia di bambini alla lettura.

«Il trucco era nel metodo con cui il programma veniva realizzato: da una parte c’era il disegno che attirava indubbiamente l’attenzione; io preparavo i disegni a casa la mattina perché, se volevo disegnare un pupazzetto, dovevo fare in modo di non partire dalla testa, altrimenti la gente avrebbe capito subito. […] Dall’altra c’era ogni tanto l’intervento di un attore popolare (quasi sempre a titolo gratuito, perorando la causa) che raccontava una piccola storia o faceva una scenetta. […] Ancora oggi mi capita di ricevere messaggi o di incontrare qualcuno, che può avere quaranta o cinquant’anni, che mi dice di avere imparato a leggere e a scrivere con la televisione, quando era bambino e non andava ancora a scuola o aveva appena iniziato. Questo è un altro aspetto significativo di quel programma, che coinvolgeva anche molti bambini e ragazzi.»

Per diversi anni, Manzi si recò in alcuni Paesi del Sudamerica ad esportare la sua didattica. Anche quest’esperienza fu per lui molto importante. Racconta:

«Sono stato spesso in Sudamerica. Vi andai per la prima volta nel 1955 e ’56 con una borsa di studio per studiare tipo di formiche nella foresta amazzonica, ma scoprii altre cose che per me valevano molto di più. C’erano i contadini che non potevano iscriversi ai sindacati, perché non sapevano né leggere né scrivere, e nessuno glielo insegnava; chi cercava di farlo rischiava di essere picchiato e imprigionato, oppure ucciso. […] A volte restavo venti giorni, altre volte quaranta; andavo sull’altopiano andino, in Perù, facevo scuola a una quindicina di Indio, insegnavo l’alfabeto, a leggere e a scrivere in spagnolo, arrangiandomi come potevo; poi loro insegnavano ad altri. Quest’esperienza è andata avanti per circa vent’anni, fino al 1977. […] Alcuni Stati (del Sudamerica) non mi davano più il visto: non ero una persona gradita.»

Manzi ci insegna che gli strumenti per insegnare non sono indispensabili se si ha un buon insegnante. Un maestro capace di adattarsi alle realtà che incontra, di rimboccarsi le maniche, di reinventarsi, di affrontare i programmi ministeriali non come un ordine di cose a cui attenersi scrupolosamente, ma come un obiettivo da raggiungere. La sua figura resterà grande nel tempo, con la speranza che sempre più persone possano prenderla come esempio. Esempio di dedizione al lavoro, di cura e attenzione ai dettagli, di pazienza, di serietà. Esempio di grande impegno.

Fonti: Intervista ad Alberto Manzi a cura di Roberto Farné, 13 giugno 1997

Pubblicato da Francesco Saverio Mongelli

Classe 1997, barese. Autore di canzoni, poesie, saggi, articoli. Musicista e scacchista, appassionato anche di antimafia, attualità, giornalismo, arte e cinema.