Intervista a Susanna Gangi

L’intervista è parte della tesi, del triennio in Conservatorio, dal titolo: “Mario Gangi, Maestro d’Italia. Una vita per l’insegnamento” [ottobre 2018].

Che tipo di educazione ha ricevuto dai suoi genitori? L’avere avuto come padre un grande musicista ha influenzato in qualche modo la sua crescita?

L’educazione impartita dai miei genitori, soprattutto da mio padre, che era di origini siciliane, non è stata severa, ma certamente piena di principi morali. Quello che io sono oggi è dovuto a loro. Ho vissuto il Sessantotto, un periodo in cui si rischiava di fare degli errori e io non ne ho fatti grazie a quel bagaglio di insegnamenti ricevuto dai miei genitori. Tutti valori che cerco di trasmettere anche oggi ai miei figli e che mi fanno sentire bene con me stessa. La percezione di un padre famoso musicista all’inizio non la si ha, non è ben chiara, perché lo vedi solo come tuo padre; vedi gente che lo applaude, che ha rispetto e ammirazione per lui, ma è qualcosa che non si comprende a pieno, proprio perché è tuo padre. Poi, negli anni, quando segui tutto, segui la sua carriera, senti quante persone – anche oggi che non c’è più – sono legate a lui e a quello che ha dato, capisci tante cose e capisci che è bello avere un padre così.

E i suoi allievi, secondo lei, hanno provato sensazioni simili?

Papà suonava la chitarra elettrica, suonava jazz, blues. Papà non era solo professore in aula; lui fuori dall’aula seguiva tutti i suoi studenti, aveva un rapporto particolare con loro. Spesso si riunivano a Grottaferrata, in un ristorante che lui amava, dove tutti dovevano ordinare “per forza” bucatini all’amatriciana, che per lui erano una dipendenza. Papà si prendeva carico di molti dei suoi allievi e spesso li seguiva anche nella vita privata. È stato testimone di nozze di tanti suoi alunni. Voleva che i suoi allievi fossero, oltre che bravi musicisti, anche brave persone. Era una persona di grande moralità. Io lo chiamavo don Chisciotte.

Che musica ascoltava il Maestro?

Lui non è stato mai un ragazzo come gli altri. Mi raccontava che suo padre, nonno Alfredo, musicista, era molto severo. Aveva capito che il figlio era dotato, diverso da un chitarrista qualsiasi e perciò lo faceva studiare ore e ore. Abitava in un quartiere popolare del centro e quando gli amichetti si riunivano sotto casa per giocare a pallone e lo chiamavano, lui non ci andava perché doveva o voleva restare in casa a suonare. Ha amato la musica da subito, inizialmente quella classica, poi tutte le canzoni dell’epoca. Diceva che Mina non era una cantante ma uno strumento che canta. Aveva la capacità di percepire stonature che altri non sentivano, aveva un orecchio musicale, diverso dagli altri.

Come fu l’incontro tra suo padre e sua madre? Vuole parlarne?

Me lo ha raccontato mia madre. Un giorno disse ad una sua amica: “Andiamo al Cinema Reale che ci sono due ragazzi che suonano”. Loro entrarono, ascoltarono il concerto e poi, come si usava, andarono in camerino per salutarli. Mio padre incontrò tutti e poi loro, che gli chiesero l’autografo; mentre stavano andando via disse a mia madre: “No, no, tu aspetta qua, non andare via che ti devo dire una cosa”. Usciti tutti, e rimasti soli, le chiese di vedersi e così ci fu il loro primo appuntamento. Erano giovanissimi, prima della guerra. Fu per entrambi un colpo di fulmine, per mia madre l’unico uomo della sua vita. Si sono sposati nel ‘45. Si sono sempre voluti bene, tanti anni di matrimonio insieme, una coppia sempre unita e io, come figlia, ho ereditato questo valore della famiglia.

Lei con che dischi è cresciuta?

Io ho giocato dentro casa con la musica di mio padre. Appena entrava in casa, mi diceva sempre: “Devi esercitare le mani minimo per cinque ore, puoi saltare un giorno se stai male, ma non due, perché perdi l’abitudine”. Conosco tutte le musiche di mio padre, a memoria. Poi, diventata ragazza, era il ‘68, sono passata ad altri ascolti: non tanto i Beatles quanto i Pink Floyd e i Rolling Stones. Mi piaceva di più questo genere “hard” di musica.

C’erano mai conflitti con suo padre?

Ne ho avuti parecchi. Sia per la musica che per la politica. Volendoci così tanto bene, si risolvevano tutti. Siamo stati molto uniti, ma con idee diverse. Ecco, eravamo due persone diverse.

Lui, uomo di altri tempi, che orientamento politico aveva?

Ha vissuto il fascismo ma non era fascista, né tantomeno uomo di sinistra. Credo fosse di centro e probabilmente ha votato Democrazia Cristiana perché i suoi principi si inquadravano facilmente in quel partito. Non amava gli estremismi e per questo, come accadeva spesso a quei tempi tra genitori e figli, si scontrava con me che ero un po’ troppo estremista.

Era un cattolico praticante?

No, non era un cattolico praticante perché il famoso nonno Alfredo era un ateo convinto e la nostra famiglia non è stata mai praticante. Però, anche se non era praticante aveva un ottimo rapporto con i preti; per esempio, i padri scolopi erano cari amici di mio padre. Non abbiamo mai escluso le persone che praticano religione o hanno parole di fede. Lui ci ha insegnato a rispettare le idee di tutti.

Lo studio, l’insegnamento, gli impegni pubblici, le tournée in Italia e all’estero, ne hanno fatto un padre assente per voi figli?

È una condizione che non abbiamo vissuto. Quando eravamo piccole, papà spesso era assente tutto il giorno ma la sera rientrava e si dedicava a noi. La domenica ci portava al cinema, quando serviva dal pediatra, ai giardinetti o a comprare i vestiti. Papà è stato una mamma per me, mi ha accudito come mia madre. Era un padre di altri tempi, ci portava anche in bagno. Oggi sembra normale cambiare pannolini, ma i padri di quell’epoca non credo lo facessero. Papà è stato un padre molto moderno.

Nei lunghi periodi di assenza, invece?

Sì, quando è stato in Giappone o nelle Americhe. Ma quando sono cresciuta e mi sono sposata, lo seguivo con mio marito in ogni concerto che faceva nel mondo. Ma quando c’era ci dava tanto, proprio tanto. Non ho mai sentito la sua assenza.

C’è qualche aneddoto spiritoso legato a suo padre? Ha avuto modo di conoscere qualche ospite che portava a casa?

A casa nostra ne sono passati tanti. Ricordo Massimo Ranieri, bambino; lo portarono a casa che parlava solo napoletano, per farlo sentire a mio padre che disse: “Sì, sì, stó ragazzino sa cantare”. Anche di Gianni Morandi mi ricordo, e come lui di tanti altri. Quando ero piccola papà mi portava alla RAI. Ho visto Sordi e tanti altri personaggi dello spettacolo. Sono anche apparsa in televisione a sei anni; con Fausto Cigliano ho fatto “Sera di Natale”. A quei tempi la Rai era diversa, c’erano molti spettacoli per i bambini, era un ambiente familiare. È cambiato anche quello… I suoi allievi hanno tutti un buon ricordo di lui. Avevano un timore quasi “mostruoso” di papà perché quando insegnava e vestiva i panni del professore dava e voleva il massimo. Però, finito quello, diventava un’altra persona. Per fare un esempio, una volta il figlio di una nostra amica si presentò con bermuda e sandali e lui lo rimandò indietro. E comunque casa nostra era sempre aperta ed è stata il rifugio di quelli che avevano problemi: il piatto di bucatini era sempre pronto!

Oltre alla musica, il maestro Gangi, che passioni e interessi aveva?

La Roma. Era un grande tifoso, mi portava allo stadio. Un giorno si è sentito male, rischiando un mezzo infarto, e non c’è più andato. Poi gli piaceva stare in cucina, buttava giù la pasta, verificava la quantità di sale, faceva la spesa e altre cose che oggi possono sembrare normali ma che a quei tempi non lo erano per niente. Mio padre ha studiato, leggeva e, considerata l’epoca, era abbastanza colto.

Aveva debolezze o difetti?

Era troppo meticoloso. Papà ci adorava, ma se aveva messo la penna così e io per giocare gliela mettevo colà era una tragedia. Per lui l’ordine e l’educazione erano valori importanti. A volte esagerava a sgridarci per poi, però, rincuorarci. Mi ricordo che quando facevo il liceo, siccome lui viaggiava molto, prese il libretto delle giustificazioni, lo firmò tutto e disse: “Per quando stai male o eccezionalmente non hai voglia di andarci”. Quando se ne accorse la preside fece un casino: “Voglio vedere tuo padre!”. Lui le tenne testa così: “Se ho fatto questo significa che ho la massima fiducia in mia figlia e lei sta mettendo in dubbio il mio rapporto con mia figlia”. Mio padre era così: massima fiducia per le cose importanti e poi, per una stupidaggine, magari perché gli spostavi la penna, era come se gli crollasse un mondo.

Quanto suonava in casa e dove?

Nel suo studio, il regno dove tutto era in ordine. Tutto era catalogato e lui trovava tutto subito. Studiava 5 o 6 ore al giorno. Quando non era in Conservatorio era alla Rai, ma spesso tornava a casa all’ora di pranzo. Magari aveva degli impegni il pomeriggio. Dopo cena noi guardavamo la televisione e lui suonava, sempre.

Come ha vissuto gli ultimi anni di suo padre? Ha continuato a suonare anche da anziano?

Mio padre, credo nel 2004, aveva in programma un concerto in Spagna. Qualche tempo prima, andando a trovare degli amici qui a Roma, cadde e si ruppe il femore. Ci fu un lungo fermo, tra operazione e una difficile riabilitazione, durante il quale cominciò a manifestarsi una lieve demenza senile. Mio padre non ha mai avuto l’Alzheimer, ci ha sempre riconosciuto. Poi si è accorto che non riusciva più a suonare come prima e, negli ultimi cinque anni, non solo non ha più toccato la chitarra ma non ha proprio avuto voglia di vederla. Si è reso conto che non era più come prima. Diceva sempre: “Suonare la chitarra è come tenere in braccio una donna; devi saperla gestire, amare, usare ma devi anche saperla tenere. Quando non sei più in grado di tenerle testa, ti devi arrendere”. In effetti nella vita ha fatto così. Lui mi suonava sempre Asturias, sapeva che mi piaceva tantissimo. Non me l’ha più suonata. La malattia poi è diventata sempre più importante.

E sugli anni dell’insegnamento?

A Napoli si trovava benissimo. Noi mangiavamo pane napoletano, caffè napoletano, in casa si parlava napoletano. Col direttore del Conservatorio di Napoli aveva un ottimo rapporto e quando vi insegnava stava un paio di giorni. Prendeva il treno alle 4 di mattina e un suo allievo di allora, Tony Cosenza, a papà molto legato, lo aspettava al treno, gli prendeva le valigie e lo accompagnava. Mio padre a quel tempo fumava, era conosciutissimo a Forcella e quando arrivava dicevano “Ci sta o’ professore, dategli ‘e sigarette ‘a o professore”. Quando andavo con lui a Napoli mi accorgevo che lo riconoscevano tutti. E poi rincasava spesso con pane, caffè e sfogliatelle.

Siamo in chiusura, cosa le manca di più di suo padre?

Proprio lui, la sua figura. Quando avevo un problema me lo risolveva, con lui potevo parlare di tutto, di qualsiasi argomento, era un confidente. Non era un padre da temere. Tante volte mi dico: “vedi, se c’era papà potevo chiedergli …”. Anche oggi che sono una persona adulta, quasi anziana, mi dico: “non è che ti serve papà, però la persona, quello che ti sapeva dire, che ti sapeva dare”. Era una persona presente, piena di tante cose. Erano tanti aspetti rinchiusi in un padre.

Grazie mille.

Prego, caro.

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Pubblicato da Francesco Saverio Mongelli

Classe 1997, barese. Autore di canzoni, poesie, saggi, articoli. Musicista e scacchista, appassionato anche di antimafia, attualità, giornalismo, arte e cinema.