Intervista a Dario Canossi

L’intervista è stata pubblicata nel libro In disaccordo (Radici Future, 2020)

 

Dario Canossi, fondatore dei Luf, band folk-rock bresciana, nata agli inizi del Duemila, con dodici album pubblicati.

Luf in dialetto bresciano significa lupo. La vostra filosofia è quella di divertirvi e far divertire, magari ballare. È anche questa la funzione che la musica deve avere? Raccontate personaggi con vite comuni, storie vere, spesso in dialetto, attingendo dalla tradizione popolare. Perché questa scelta? 

Sicuramente la musica ha una funzione multipla. Tra queste anche quella di far ballare la gente; ha una funzione popolare che ha sempre avuto. Noi diciamo sempre che la musica dei Luf arriva alla testa, al cuore e alle gambe; di conseguenza, anche le gambe devono muoversi, anche il ballo ha il suo bel perché. La tradizione popolare è per noi fondamentale, per me che scrivo ancora di più. Quando mi chiedono una definizione di ciò che faccio penso di essere un popolano che fa della musica, una persona che mette a disposizione di chi ascolta le poche cose che sa fare. Il cantore popolare ormai è presente nella nostra tradizione e penso debba essere in qualche modo rivalutato.

Nel 2014 incidete l’album “Terra e pace, 1915-2015. Cent’anni di gratitudine”. La Prima Guerra Mondiale fu un evento disastroso e folle che provocò milioni di morti. È fondamentale per un musicista la ricerca storica, come quella dei canti degli alpini che avete reinciso in chiave folk. Com’è stato e cosa ha significato svolgere questo lavoro?

 È fondamentale per ogni musicista popolare andare a vedere cosa c’è nella nostra storia, è necessario cercare di capire cosa sia successo prima per poter raccontare quello che sta succedendo adesso.  La guerra è sempre una tragedia, lo è stata allora e lo è oggi; esistono centinaia di guerre di cui nessuno parla. L’ultima, per esempio, è quella dei curdi. Svolgere questo lavoro ha riaperto un solco che in qualche modo si è chiuso. La memoria fa paura, è qualcosa che tendiamo a dimenticare. È un po’ un assurdo ma è un dato di fatto. Voler ricordare quello che è successo è voler in qualche modo cercare di capire come possiamo costruire un futuro diverso evitando gli errori che sono stati fatti.

Nel 2016, in occasione della Giornata internazionale del rifugiato, esce il disco “Delaltèr”. Affrontate il tema della fuga dalla guerra e del salvataggio. Quanto è importante che la canzone tratti temi d’attualità come questi?

Penso che la canzone sia legata a chi la fa. Chi fa questo mestiere decide cosa raccontare, di cosa occuparsi. La funzione sociale, di racconto, cronologica, di denuncia sociale dell’opera musicale è una funzione che alcuni di noi accettano e sposano, altri rifiutano. Personalmente non sono attratto, in nessuna maniera, dalla canzone commerciale.

Ho sempre pensato che la canzone abbia una funzione sociale, anche in qualche modo politica; penso che la canzone debba essere in qualche modo il racconto del presente. Scrivere una canzone significa scattare una fotografia personale, con una propria macchina, da un punto di vista personale di quello che sta succedendo. Per tradizione, per cultura, per mentalità, non sono mai riuscito a estrapolarmi, a mettermi al di fuori di ciò che succede. È quindi per me un obbligo etico quello di raccontare, a volte di denunciare, ciò che accade.

Pertanto, il nostro disco sui migranti è stato fortemente voluto ed è stato un album che, benché assolutamente fuori modo e politicamente scorretto per i tempi in cui viviamo, è stato volutamente portato avanti e abbiamo scoperto che tante persone avevano il bisogno di sentire queste storie raccontate. Abbiamo scoperto che uno dei brani del disco, l’ “Ave Maria” , ha avuto un riscontro enorme perché, alla fine, girare e far girare il rosario come una fionda senza sapere, senza pensare e senza capire che in fondo Maria era semplicemente la madre di un migrante. Potare questo messaggio è per noi importante, direi fondamentale.

Parlando di antimafia, nel 2012, per celebrare il ventennale della strage di via d’Amelio, esce il singolo “Angeli di neve” in memoria di Falcone e Borsellino. Perché scrivere una canzone contro la mafia? Perché ricordarne le vittime?

Non si parlerà mai abbastanza della mafia, non si ricordano mai abbastanza le vittime. Gli angeli di neve non sono soltanto Falcone e Borsellino. Angeli di neve sono gli autisti, gli uomini della scorta, che nessuno spesso ricorda per nome. Ancora una volta il ricordo, come per la guerra e per i migranti, diventa fondamentale. Fermarsi, pensare, ricordare, guardare indietro per costruire avanti. Tutto questo oggi non è più alla moda, non è più cool, come dicono i giovani; tutto questo non da il successo, non fa scalare le classifiche, ma ciò non è un problema che ci riguarda. Combattere la mafia vuol dire anche ricordare chi  l’ha veramente combattuta, quindi cantare e ricordare il sacrificio.

Questo impegno sociale e musicale, significa decidere da che parte stare. Ho sempre ritenuto molto importante schierarmi, essere di parte. Sono di parte, sono da una parte. Lì sono nato e lì rimango.

Amate definirvi dopolavoristi di lusso. Che cosa significa?

Significa che la musica si può fare in infiniti modi. La si può scegliere per professione. Ma noi, come nella canzone “Bocca di rosa”, la scegliamo per passione; preferiamo non dover legare ciò che facciamo ad un ritorno economico. Non vogliamo essere costretti a dover dire di sì a tutto quello che arriva perché altrimenti alla fine del mese non sappiamo come mettere qualcosa nel palato dei nostri figli. Vogliamo semplicemente che per noi la musica per prima cosa una passione, oltre che un divertimento, la gioia di stare assieme, di scrivere, senza la preoccupazione di doverne fare un mestiere.

Siamo dei “dopolavoristi di lusso”. Di lusso perché tutti i musicisti che lavorano nei Luf, a parte il sottoscritto, sono di livello altissimo dal punto di vista strumentale, tecnico, professionale, musicale. Sono tutte persone che potrebbero lavorare con i più grandi gruppi e musicisti italiani. Invece hanno fatto questa scelta. La scelta di divertirsi, di fare quello che ci piace, che ci sembra giusto, ci diverte, che in qualche modo è diventato poi la nostra vita. Quindi è un dopolavoro, anche se spesso e volentieri ci impegna più di un lavoro. Fare quaranta, cinquanta date all’anno non è uno scherzo, specialmente se il mattino dopo alle otto bisogna essere sul posto di lavoro.

La libertà, però, non ha assolutamente alcun prezzo. Il poter dire di no, di rifiutare un progetto anche se pagato bene, per noi è fondamentale. Vale di più che far diventare questo un mestiere. Penso che per noi non lo sarà mai. Non saremo mai dei mestieranti, non saremo mai al soldo di qualcuno, ma saremo sempre liberi; poveri, ma allegri.

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Pubblicato da Francesco Saverio Mongelli

Classe 1997, barese. Autore di canzoni, poesie, saggi, articoli. Musicista e scacchista, appassionato anche di antimafia, attualità, giornalismo, arte e cinema.