Intervista a Carlo Muratori

L’intervista è stata pubblicata nel libro In disaccordo (Radici Future, 2020)

 

Carlo Muratori, cantautore siracusano, tra i più autorevoli in Sicilia.

Durante la sua quarantennale carriera artistica, ha avuto la possibilità di collaborare con la cantastorie Rosa Balistreri e con il poeta Ignazio Buttitta. A quest’ultimo, e ad altri poeti siciliani, ha dedicato lo spettacolo “Arsura d’Amuri”. Che cosa può raccontare di queste due fondamentali figure delle quali l’Italia si fregia?

Queste figure sono state per me importantissime in quanto hanno indirizzato il mio modo di vedere le tradizioni popolari siciliane e la maniera di reinventare, se possibile. Una affermazione che potrebbe sembrare un ossimoro ma in effetti è la realtà; di fatto la tradizione si era un po’ sfilacciata nei primi anni Cinquanta, con il boom economico e tutte le nuove condizioni di natura socio-politica. Chiaramente la tradizione popolare veniva a perdere una serie di connotati importantissimi, proprio perché mancava sempre di più quella classe popolare che per secoli si era basata sul lavoro nelle campagne e nel mare – quindi la pesca e l’agricoltura – generando una serie di aspetti artistico-culturali che vanno sotto il nome di “cultura di tradizione orale”; di conseguenza anche i canti del lavoro, dell’amore, le filastrocche dei bambini, le ninna nanne e tutto il vastissimo canzoniere che apparteneva a quella società ne risentiva. Venendo meno questa peculiarità, la tradizione perdeva i contatti con la realtà sociale.

Figure come Rosa Balistreri e Ignazio Buttitta, nella loro grande intuizione, hanno ri-allacciato i nodi con la tradizione antica proponendone un’altra, altrettanto valida, potente, artistica, lirica, sia per la forma che per i contenuti. Certamente veniva meno la parte rurale e selvaggia del canto popolare, interpretato il più delle volte da persone analfabete, che faceva riferimento principalmente a quello che era l’istinto e la memoria. Questi due personaggi arrivavano ad una stessa conclusione da un’altra strada, ovvero l’aspetto colto. Reinventarono modi di dire e stili riprendendo la tradizione. Il loro lavoro è stato basilare per me e per il mio modo di porgermi rispetto a questo tipo di impegno. Con Rosa perché, avendo avuto modo di collaborare nei suoi live da chitarrista, vedevo il suo modo di comunicare con il pubblico e il suo modo di raccontarsi nelle sue canzoni. Con Ignazio – con il quale realizzai nel 1986 la sua forse unica opera teatrale “Il Colapesce”, scrivendo le musiche ed essendone anche il protagonista teatrale – perché conobbi le profonde pieghe del suo carattere e della sua grande personalità. Loro due sono fondamentali per tutti, specialmente per la Sicilia e per il mondo che frequenta la cultura popolare.

Verso la fine degli anni ’70, con il suo gruppo di allora, I Cílliri, partecipa in numerose puntate al nascente programma televisivo “Festival della Nuova Canzone Siciliana”, condotto da Pippo Baudo. Quanto è importante conservare le proprie origini e tradizioni? Perché, spesso e volentieri, anche quando si ha una vita soddisfacente sul piano culturale, artistico ed economico, si tende a voler cercare altrove?

Questo festival non fu nulla di eccezionale dal punto di vista culturale, se non un fenomeno di costume e di spettacolo. A Baudo non interessava granché la cultura siciliana antica e i suoi contenuti. Lo stile popolare antico è molto difficile da ascoltare e da seguire, non ha strofe e ritornelli, è molto duro, necessita di un certo impianto culturale critico e sapiente per poterlo decodificare. Baudo invece è una persona di spettacolo. Egli aveva  inventato questa sorta di trasmissione televisiva nella nascente Antenna Sicilia, a Catania. Nel periodo delle televisioni private, Antenna Sicilia era la più potente emittente del sud Italia e lui, che allora era un grande mito, faceva la spola tra Domenica In alla Rai e questo programma in Sicilia.

Era una trasmissione di canzonette scritte in siciliano da alcuni “cantautori, musicisti, scrittori”. Noi Cílliri eravamo ospiti fissi e, al contrario, rappresentavamo la parte hard di quella trasmissione e capitava spesso di entrare in conflitto con Baudo il quale, dietro le quinte, ci rimproverava l’eccessivo ricorso all’aspetto filologico e culturale. È chiaro che le cose sono connaturate; non potevamo ridere e scherzare sui canti dei minatori o dei contadini che morivano sul campo di lavoro sotto il peso del sudore e della fatica.

Invece, la trasmissione aveva un tocco ridanciano molto leggero. Serviva soltanto una canzone di musica leggera in lingua siciliana. L’unica particolarità era che fosse scritta in lingua siciliana. Una sorta di Sanremo dei poveri. Noi eravamo lì per testimoniare un’altra cosa. Baudo, intelligentemente, ci aveva inserito perché sapeva che grazie a noi bilanciava questo squilibrio. Dal punto di vista comunicativo, ci fece un gran favore poiché dopo aver partecipato a quelle venti, trenta puntate, raccogliemmo grande popolarità. In Sicilia eravamo diventati molto famosi; molti per strada ci chiedevano l’autografo. Sdoganammo, quindi, la musica popolare siciliana, seppur rifatta e riarrangiata riscritta da un punto di vista armonico.

Nella canzone “Marina di Melilli”, racconta uno dei tanti episodi tristi e desolanti della storia del nostro Paese. Ce ne vuol parlare? Che cosa si prova quando si è costretti ad abbandonare la propria casa?

“Marina di Melilli” è un brano che scrissi nel ’94-’95, contenuto nell’album “Stella Maris”, pubblicato per cgd Warner; un disco nazionale che seguiva “Canti e Incanti” del 1994. Era un periodo di grande attività nella mia carriera artistica.

Mi sono ispirato a questo borgo perché dal luogo in cui vivo, Belvedere di Siracusa, si vede un bellissimo panorama: il mare, l’Etna, tutta la costa orientale ionica, e quindi anche Marina di Melilli. Un paesaggio deturpato dall’arrivo, già negli anni Cinquanta, degli insediamenti petrolchimici in particolare, negli anni ’70, l’isab dei genovesi Garrone, di cui non si sentiva assolutamente alcun bisogno e che fu costruito proprio quasi nello stesso spazio vitale in cui esisteva Marina di Melilli. Nel breve volgere di due tre anni, tutti gli abitanti del paese dovettero fuggire, prendendo seppur qualche mazzetta (perché l’industria paga bene), andando a vivere in qualche triste condomino di Siracusa. Il paese fu spopolato. Rimase un solo abitante, tale Salvatore Gurrieri, che non voleva assolutamente accettare né soldi né gloria, ma soltanto restare nella sua casa. Fu “stranamente” trovato incaprettato nella sua macchina durante gli stessi giorni in cui a Palermo si compiva la strage di Falcone. Per cui, se ne parlò pochissimo.

Questa è una storia estremamente triste che rappresenta la sopraffazione e il colonialismo in cui noi siamo precipitati, già dal 1860, da quando siamo diventati una nazione, per causa o grazie al lavoro di Garibaldi e allo sbarco dei Mille, a Marsala. Questa terra è stata oggetto di sopraffazione e di ingiustizie; un altro capitolo della lunga storia in cui il governo nazionale non ha tutelato gli interessi della gente, salvaguardando il territorio e l’ambiente. Fu privilegiata la grande industria, che dette in realtà pochissimo lavoro, e si deturpò quella che era chiamata la “Baia degli Dei”, per quanto era bella, ricca di una sabbia particolare color oro, di pescato e di tante altre particolarità divenute, nel breve volgere di pochi anni, un accumulo di mercurio e di altre porcherie, che causarono la nascita di bambini malformi e di malattie tumorali che causarono decine di morti.

Questo è il prezzo di quel pane che avrebbero dovuto portare i ricchi industriali, di cui tutti ci siamo cibati in qualche modo e per cui stiamo pagando con le conseguenze. Questa mia canzone racconta, nel breve tempo di tre minuti, questa vicenda. Sono rimaste le case intatte; non hanno avuto neanche il buon gusto di rimuoverle. Resta un paese fantasma, le case stanno marcendo e le finestre cadono a pezzi con le antenne ancora sui balconi. Qualcosa di veramente agghiacciante.

I suoi testi, sono nella maggior parte dei casi scritti in dialetto. Perché questa scelta?

La lingua siciliana ha una propria struttura grammaticale, una sintassi, un suo vocabolario; ciò la rende una lingua colta a tutti gli effetti. Dante Alighieri, nel “De vulgari eloquentia”, racconta e certifica come da questa lingua sia nato il ceppo della lingua italiana; proveniente direttamente dal latino. La lingua siciliana ha delle forme che con la scuola poetica siciliana – Jacopo da Lentini e tanti altri – ha influenzato lo stesso Dante il quale utilizza, per le sue composizioni, la stessa metrica dei canti popolari: l’endecasillabo, lo strambotto, le ottave, con cui l’analfabeta popolare compone le proprie canzoni.

Tutto questo ha determinato in me un amore spropositato per questo “suono”; sono innamorato di questi suoni, del modo di descrivere in estrema sintesi la bellezza. È una lingua che, con pochissime pennellate, riesce a parlarci, a far capire molto di più di quanto possa riuscire una circonlocuzione italiana. Utilizzo anche l’italiano, per le canzoni dove la lingua popolare non si presta a trattare temi di natura più intima e filosofica.

Trovo il siciliano legato alla mia voce, al mio modo di cantare, al mio stile. Ognuno ha il proprio stile ed io, non essendo Ramazzotti o Fossati, ho un certo tipo di suono nella mia laringe che si valorizza molto di più sul siciliano piuttosto che con l’italiano.

Lei ha tenuto concerti in varie parti del mondo: Austria, Stati Uniti, Canada. Cosa significa essere un cantautore? Cosa si prova a relazionarsi, su temi così peculiari, con spettatori di altre nazioni?

Sono soprattutto un cantastorie, una persona che lega la propria attività di compositore alla possibilità di raccontare delle storie. Per me è fondamentale, quando sono sul palco, non cantare delle canzoni in quanto non mi definisco un cantante, non ho mai pensato di fare questo lavoro nella vita. Provengo da un’esperienza sindacale politica di impegno sociale. Sono stato nelle piazze e nelle campagne, a parlare di politica alle persone, e quella della musica era la continuazione di un modo di essere, grazie anche agli studi di musica in conservatorio.

Tutto mi ha dato la possibilità di avvicinare le persone con il racconto di storie legate alla propria terra, alla nostra storia, alla nostra tradizione. Farlo in Sicilia, a Catania, a Melbourne o a Berlino, non cambia granché. Si tratta soltanto di avvalersi di un bravo interprete accanto che possa tradurre ciò che dico prima di ogni canto, perché ho la necessità di inserire nel giusto contesto ciò che sto per cantare in quanto non si tratta di canzoni ma di storie cantate. E vedo che c’è grande risposta da parte del pubblico.

La gente mi ringrazia per come, attraverso un canto, io riesca a raccontare lo Sbarco di Marsala dei Mille, piuttosto che la morte di Falcone, di Salvatore Gurrieri e di Marina di Melilli o dell’avvocato Nicolò Lombardo nella strage di Bronte, con i suoi moti. Tutto ciò che ha fatto di questa bellissima terra il sud d’Italia, la terra dei terroni, quella che al nord viene percepita come un peso. Racconto come il meridione sia stato una risorsa, e ancora oggi continua ad esserlo.

In conclusione, piuttosto che puntare al Festival di Sanremo, che non è altro che uno scimmiottare volgare di quelli che sono i dettami anglo-americani di musica leggera, bisognerebbe puntare alla rivalutazione delle nostre peculiarità regionali, rimettendo in musica, con la giusta risonanza mediatica, le pizziche della Puglia, le tarantelle siciliane, i canti calabresi, le ballate romane ed emiliane. La nostra è una terra ricca di diversità stilistiche non omologabile ad un unico stile nazionale. In questo modo ci si appiattisce sempre più su percorsi tracciati da altri popoli e culture, si raggiunge un livello artistico mediocre e soprattutto si genera pochissimo interesse all’estero.

© riproduzione riservata

Pubblicato da Francesco Saverio Mongelli

Classe 1997, barese. Autore di canzoni, poesie, saggi, articoli. Musicista e scacchista, appassionato anche di antimafia, attualità, giornalismo, arte e cinema.