Intervista a Marino Severini

L’intervista è stata pubblicata nel libro In disaccordo (Radici Future, 2020)

 

Marino Severini, fondatore, assieme a suo fratello Sandro, dei Gang, storico gruppo punk-rock italiano.

Durante la vostra carriera, vi siete divisi i compiti: lei si è occupato della voce e dei testi, suo fratello dell’aspetto musicale. Com’è nata l’idea di fondare un gruppo e far diventare professione una passione?

Non è stata una “divisione dei ruoli” vera e propria, ma la naturale conseguenza di una sorta di attitudine che risale al tempo della nostra infanzia. A me è sempre piaciuto leggere quindi, con i pochi soldi che avevo e quando potevo , compravo dei libri e Sandro, invece, comprava i dischi. In questo modo non mancava niente a casa, rispetto a quelle che erano le nostre passioni e i nostri interessi. Entrambi, sin da bambini, suonavamo la chitarra. Il nostro maestro Lucio Mazzoni, nonché vicino di casa, oltre ad insegnarci a suonare, ci fece conoscere molti dei suoi amori musicali, soprattutto la soul music, il rhythm and blues e il rock and roll. Lucio aveva suonato per anni con un gruppo chiamato “ Le Ombre” ad Istanbul dove conobbe e suonò con molti musicisti americani che prestavano servizio militare nelle basi nato in Turchia.

Nel corso degli anni sia io che Sandro abbiamo suonato in diversi gruppi musicali, ma mai insieme; soltanto alla fine degli anni ’70 decidemmo di creare, sull’onda del punk rock in quegli anni nascente in Inghilterra, un gruppo: i “Papers Gang”. Lo abbiamo fatto perché non c’era niente di meglio da fare in un paese della Provincia dell’Impero e perché come giocatori di calcio eravamo due schiappe; prendemmo questa decisione soprattutto per “appartenere” ad un certo tipo di cultura, prendendo la parola ed esprimendoci in libertà; “partecipare” ad un sogno, alla sua realizzazione. Nata come una passione, nel corso del tempo, è diventata lavoro a tutti gli effetti.

C’è stato un periodo nel quale abbiamo corso il rischio di confondere la nostra identità, ovvero quando abbiamo affidato al mercato e alle sue ragioni, la produzione, promozione e distribuzione del nostro progetto musicale. È stata soltanto una stagione, poiché finita. Siamo tornati al “nostro popolo” che, oggi, è l’unico a farsi carico, attraverso l’organizzazione dei concerti e la co-produzione dei nostri dischi, affinché quella passione continui ad essere per noi un lavoro.

All’inizio degli anni ’80, compite un viaggio fondamentale a Londra che vi farà avvicinare ancora di più al punk. Com’era quel mondo? Cosa significava essere punk? Quali gruppi vi entusiasmarono o vi ispirarono particolarmente in quel periodo?

Nell’estate del 1979, per puro caso, decidemmo di andare a Londra. A dir la verità, dovevamo fermarci giusto un paio di giorni poiché la nostra destinazione era il festival di Reading, dove in realtà non arrivammo mai perché scoprimmo un lato di Londra che neanche immaginavamo: il Punk! Non era soltanto musica, ma uno stile vero e proprio. Una rivolta più che rivoluzione, ma che di fatto era la prima risposta politico-musicale alla Thatcher e al nuovo ordine mondiale. Bastò quella rivelazione ad indicarci un altro orizzonte e una strada nuova da percorrere per far parte di quella nuova “Revolution Rock”.

Tornati a casa, ci tagliammo i capelli, comprammo dei giubbotti di pelle al negozio degli abiti usati, alzammo il volume dei nostri amplificatori e cercammo dei nuovi “compagni di viaggio”: il basso e la batteria. Così mettemmo su una band o meglio una banda! In sostanza, quel viaggio a Londra ci rese consapevoli che “si poteva fare” , che potevamo di nuovo “appartenere” ad un altro “Assalto al Cielo”. Fu una sorta di incrocio e scegliemmo di andare verso una nuova direzione per restare liberi e dar voce ad un’altra stagione di rivolta! Avevamo tutto quello che occorreva per restare nel “Movimento” e non arrenderci alla sconfitta.

Per riuscire a comprendere quella scelta occorre chiaramente sapere da quali strade noi venivamo, quali territori avevamo battuto. Sia io che Sandro avevamo fatto parte della grande Orda d’Oro degli anni Settanta, ovvero di tutte quelle aggregazioni giovanili attorno alla politica, denominate “gruppi extraparlamentari”. Un sogno di rivolta che era stato sconfitto; nel 1978 sembrava tutto finito, e di fatto lo era, ma quei frammenti della rivolta punk arrivarono fin nel cuore della provincia marchigiana, in uno sperduto paese. Di conseguenza noi “tornammo al fuoco”.

Fra tutti i gruppi di quel periodo, in particolare, i Clash ci diedero la giusta ispirazione e forza per metter su una band di punk rock. Loro erano molto diversi da tutti gli altri poiché riuscirono, in breve tempo e con pochi dischi, a far incontrare nelle loro canzoni e nel loro stile le nostre radici, i nostri amori, come il cinema western di Sergio Leone, il rock americano degli anni ’50, quello inglese dei King Crimson o dei primi Rolling Stones e degli Who, l’impegno politico e in particolare la “fascinazione” per l’America Latina (basti pensare alla rivoluzione in Nicaragua). Tutto ciò trovava contatto con il suono e la voce della strada, delle subculture inglesi e americane, dal reggae, dello ska, del rap, e con la forza ritrovata da questa nuova unità. I Clash fecero breccia per abbattere le mura occidentali e “aprire il varco” verso il “villaggio globale”.

In questo modo il Rock tornò ad un nuovo protagonismo, ad una nuova consapevolezza e soprattutto seppe ritrovare la sua essenza, la sua identità, prendendo nuovamente la parte giusta, quella dei giusti.

Sopravvissuti ai famigerati anni ’80, con alcuni progetti discografici alle spalle, diventate celebri con i dischi “Le radici e le ali” (1991), “Storie d’Italia” (1993) e “Una volta per sempre” (1995), e coi successivi Fuori Controllo” (1997) e “Controverso” (2000). L’obiettivo è fondere il rock con la tradizione popolare, associando al classico assetto di batteria, basso e chitarre elettriche, elementi come l’oboe, il violino, il mandolino. Il risultato è una musica prorompente, ricca, fresca, che non prevale sull’aspetto testuale che, intriso di significati, al contrario, è messo in risalto. I testi, spesso a sfondo politico, raccontano anche eventi cruciali del Novecento, come: guerre, soprusi, lotta al regime, scandali sociali, gli omicidi di Pio La Torre, Pier Paolo Pasolini, don Pino Puglisi, Ilaria Alpi. Quanto è importante mantenere viva e attiva la memoria?

È doveroso un campo lungo. Non sono mai stato d’accordo con quella sorta di “manifesto” che per anni ha campeggiato su di noi : “La Memoria siamo Noi”. Mi dispiace per Minoli e De Gregori, ma sono sempre più convinto che la storia appartiene ai vincitori. Chi vince ha la storia e ne impone la propria versione con i mezzi che ha a disposizione, ovvero quelli del potere. Noi abbiamo avuto, anzi “noi siamo” le storie, al plurale. Come scrive Leslie Silko, scrittrice indiana d’America: «Se hai le storie hai tutto, se non hai le storie non hai niente».

Queste storie nostre fanno una storia diversa da quella dei vincitori, fanno la nostra storia,  quella dei vinti. Tenere vive e ricordare, anche cantando queste nostre storie, significa non dimenticare il nostro cammino e le strade intraprese che ci hanno portato fino a qui; significa quindi che non dimenticare l’esclusione, l’emarginazione, lo sfruttamento, le violenze subite. In questo modo, teniamo viva la memoria che è l’unico mezzo, l’unico strumento che da vinti ci rende invincibili.

Nel 1991 partecipate al Concerto del Primo Maggio, in Piazza San Giovanni, a Roma. Qual è il valore di questa giornata e di quel concerto? Com’è cambiato nel corso dei decenni?

Credo che la manifestazione del 1° maggio sia una delle peggiori porcherie fatte in combutta fra sindacati e Rai. Lo era già nel ’91. Oggi credo sia decisamente peggiorata. Una vera e propria presa per il culo del lavoro e dei lavoratori; in definitiva, rappresenta uno squallido spettacolo che avvilisce e umilia quelle identità, musicali e non, che sono state e restano espressioni culturali legate al mondo e alle culture del Lavoro.

Nel disco “La rossa primavera” (2011), reincidete e riarrangiate canzoni e canti di altri artisti, sulla Resistenza, evento epocale, fondamentale e decisivo, per la lotta al nazi-fascismo e per la nascita della Repubblica. Ma oggi, a cosa i giovani devono resistere? In cosa devono credere? Saranno raccolti i frutti per i quali voi, come altri, nel tempo avete seminato, o è stato tempo perso?

Joe Strummer diceva: «Il Futuro non è scritto». Non saprei proprio cosa resterà del nostro lavoro, se e a chi sarà utile negli anni a venire. Quanto ai giovani, non mi permetterei mai di dar loro dei consigli riguardo cosa credere. Anche perché non credo che “i giovani” esistano ancora. Non parlerei oggi di Generazione, come negli anni Sessanta e Settanta; nel senso che i giovani non rivendicano una società altra da quella degli adulti, non sono “altro”. È un discorso lungo ma mi limito a sottolineare una differenza.

Nel 1977 avevo 21 anni. La mia è la generazione dell’Assalto al Cielo, del Movimento, dell’Orda d’Oro, dei circoli e delle aggregazioni giovanili attorno alla politica. Questa mia generazione ha avuto un grande cantore come Andrea Pazienza, al quale ho dedicato una canzone come “Paz”. Secondo me, le “generazioni” che si sono susseguite a quella degli anni 70 non hanno avuto cantori, nessuno le ha “cantate”. Questa, oltre ad essere una differenza, è anche un dramma poiché i cantori hanno la caratteristica di lasciare sul loro cammino delle tracce profonde in modo che la generazione che verrà possa sapere dove mettere i primi passi trovando la direzione giusta per continuare la sua parte di cammino. Se queste tracce non le dovesse trovare, sarà costretto a girare a vuoto per tutta una vita, vivendo “in prova”, non facendo delle scelte, giuste o sbagliate che siano. Non si assumerà delle responsabilità  poiché ha paura di diventare “grande”. In definitiva, non sarà capace di elaborare, rivendicare, immaginare e lottare per un altro modo di essere “grande”.

Credo che il problema abbia a che fare con l’appartenenza e col fatto che da molto tempo i giovani non sono più “rivoluzionari” o per lo meno non danno inizio ad un percorso nuovo e rivoluzionario; in sostanza, non dicono più “grazie”, dato che le vere rivoluzioni iniziano quando si comincia a dire nuovamente grazie! Un celebre filosofo divideva la storia dell’Umanità in due cicli: uno in cui prevale il “mito del Diritto”, l’altro che vede prevalere il “mito del Dovere”. Il primo ciclo è il tempo dei predatori, di coloro che ottengono ciò che vogliono in quanto sostengono che ne hanno diritto, a tutti i costi. È il tempo di quelli che affermano che “si sono fatti da soli”. Questo ciclo finisce quando comincia il ciclo del Dovere, ovvero quando si comincia a dire grazie. Grazie ai genitori che ci hanno messo al mondo, ai compagni e agli amici che nell’adolescenza ci hanno aiutato e supportato non lasciandoci soli, non c’hanno lasciato da soli, grazie ai maestri, a tutti coloro che hanno insegnato la meraviglia, la bellezza. Ecco come a forza di dire grazie, noi ristabiliamo delle relazioni, prendendo coscienza d’esser frutto di relazioni. Siamo fatti di relazioni e la nostra identità è fatta di storie che ci hanno attraversato e queste relazioni ci restituiscono una forma di appartenenza, da cui deriva la libertà, non quella del “fai ciò che ti pare” ma intesa come il diritto alla scelta e l’assunzione delle responsabilità rispetto all’appartenenza. Questa è la libertà per la quale vale sempre la pena di sacrificare la vita.

Affermava Antonio Gramsci: «Una generazione può essere giudicato dallo stesso giudizio che essa dà della generazione precedente, un periodo storico dal suo stesso modo di considerare il periodo da cui è stato preceduto. Una generazione che deprima la generazione precedente, che non riesce a vederne le grandezze e il significato necessario, non può che essere meschina e senza fiducia in se stessa, anche se assume pose gladiatorie e smania per la grandezza. È il solito rapporto tra il grande uomo e il cameriere. Fare il deserto per emergere e distinguersi. Una generazione vitale e forte, che si propone di lavorare e di affermarsi, tende invece a sopravalutare la generazione precedente perché la propria energia le dà la sicurezza che andrà anche più oltre; semplicemente vegetare è già superamento di ciò che è dipinto come morto. Si rimprovera al passato di non aver compiuto il compito del presente: come sarebbe più comodo se i genitori avessero già fatto il lavoro dei figli. Nella svalutazione del passato è implicita una giustificazione della nullità del presente: chissà cosa avremmo fatto noi se i nostri genitori avessero fatto questo e quest’altro, ma essi non l’hanno fatto e quindi noi non abbiamo fatto nulla di più. Una soffitta su un pianterreno è meno soffitta di quella sul decimo o trentesimo piano? Una generazione che sa far solo soffitte si lamenta che i predecessori non abbiano già costruito palazzi di dieci o trenta piani. Dite di esser capaci di costruire cattedrali ma non siete capaci di costruire soffitte».

Spesso, quando siamo ospiti in alcune scuole elementari o medie e parliamo con gli studenti della Resistenza, consiglio il libro di Nuto Revelli “Il Prete Giusto”. Viene raccolta la testimonianza di un prete piemontese, Don Raimondo Viale il quale, raccontando numerosi episodi della sua vita, afferma che la Resistenza è sacra, perché sta dalla parte della vita e della sua dignità. Ogni volta che la vita e la sua dignità sono violentate, represse, colpite, qualcuno si mette dalla parte della vita e la difende. La storia dell’Umanità è quindi piena di resistenze. Resistere significa stare “ora e sempre” dalla stessa parte,   quella della vita e della sua dignità.

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Pubblicato da Francesco Saverio Mongelli

Classe 1997, barese. Autore di canzoni, poesie, saggi, articoli. Musicista e scacchista, appassionato anche di antimafia, attualità, giornalismo, arte e cinema.